L’idea di felicità che abbiamo si trasforma e si modifica nel corso della nostra vita. Ti racconto la mia esperienza in questo nuovo articolo!
Un’infanzia gioiosa
Da bambini non ci poniamo domande sulla felicità: viviamo intensamente quello che c’è, buono o meno buono, come se fosse l’unica cosa possibile.
Siamo mossi da qualcosa e lo facciamo: esploriamo, andiamo in bicicletta, giochiamo con gli animali, ci muoviamo intensamente, ascoltiamo storie, inventiamo storie…
O almeno questo era vero per i bambini della mia generazione, che andavano a scuola fino alle 12.30 e poi avevano un sacco di tempo libero. Scorrazzavamo liberi, inventavamo giochi, passeggiavamo a casa degli amici da soli, ci annoiavamo, andavamo in bicicletta senza caschetto e senza alcuna paura. Andavamo a letto dopo Carosello, tanto alla sera in tv non c’era niente di adatto a noi.
Eravamo fortunati perché non eravamo l’agenda piena come i bambini di oggi (almeno fino a prima del Covid-19). Si sa, dal vuoto nascono tante cose.
Da bambini la felicità è l’essenza di ciò che siamo, e ogni bambino avrebbe diritto a crescere in un ambiente dove questa felicità venga tutelata e garantita.
Il diritto alla felicità
Molte persone crescono ma continuano a pensare che questo diritto corrisponda al dovere di qualcun altro che, se non soddisfa i nostri bisogni e richieste, diventa “brutto e cattivo”.
Invece questo diritto passa direttamente nelle nostre mani, e abbiamo la responsabilità di occuparcene in prima persona: ho diritto ad essere felice e ho il dovere di occuparmene io stessa/o.
Come è cambiata la mia idea
Se cerco di ricostruire come sia avvenuto il passaggio da una felicità praticamente permanente come quella dei primi anni di vita, a una condizione più intermittente, a una condizione dettata da una o l’altra circostanza, prima di diventare di nuovo una condizione più stabile, mi sembra di rinvenirne le tracce negli anni delle elementari.
Negli anni dell’infanzia mi sentivo amata e apprezzata per quella che ero e semplicemente vivevo esprimendo le mie caratteristiche. Ciò è cambiato con l’inizio della scuola: qui ho i primi ricordi di paragoni e confronti con gli altri bambini e con diverse situazioni.
I paragoni non aiutano
Era il tempo delle prime le interazioni sociali non mediate dalla famiglia e ricordo di aver avuto pensieri come “la nostra casa è meno bella di quella di Paola”, “sono più magra di y” (e generalmente, a detta di tutti, ero sempre troppo magra!). “A salto in alto sono più brava di tutte le femmine della mia classe”; “Alessandra è più brava di me in aritmetica”. “Mio papà fa il lavoro più importante di tutti”; “Mia mamma è più elegante delle altre mamme”; “mia sorella è più brava di me a ginnastica”. Ognuna di queste valutazioni aveva il potere di farmi sentire più o meno bene, più o meno adeguata alle situazioni – e a questo si sommavano le valutazioni che fioccavano dall’esterno.
Soddisfare la condizione diventa vitale
Da lì è nata probabilmente l’idea che se avessi soddisfatto una certa condizione, sarei stata più felice. Alcune di quelle condizioni, non erano affatto modificabili, su altre ci si poteva lavorare, e altre ancora potevano realizzarsi con una certa facilità (come quella di ricevere una seconda Barbie per Natale).
Più o meno in quel periodo molte delle scelte iniziano ad essere condizionate da quello che pensiamo di ottenere “alla fine”, come risultato. Dimenticando, però, che gran parte della felicità deriva dal processo, dall’impegno che mettiamo, dall’utilizzo progressivo delle nostre capacità e del nostro potenziale che si libera.
La sfida con me stessa
Ricordo per esempio il giorno che con la scuola eravamo al campo sportivo per una gara di atletica, e io gareggiavo per i 60 metri piani, dove ero veramente capace.
Avevo scoperto chi fossero le mie avversarie, e pur sapendo che la gara sarebbe stata impegnativa, sapevo anche che avevo buone probabilità di vincere, dato che negli allenamenti le avevo già battute tutte.
Ad un certo punto però mi comunicarono che avrei dovuto gareggiare con le più piccole (ovvero, si erano accorti che IO ero un anno più piccola, avendo saltato la prima elementare, e quindi avrei dovuto gareggiare con quelle della mia età). Sapevo che quel gruppo era ancora più facile da battere, avevo praticamente la vittoria in mano… ma scoppiai in lacrime e non volli più partecipare alla gara. Certo, una scelta un po’ drastica e molto emotiva, ma ciò che volevo, evidentemente, non era vincere, bensì guadagnarmi la vittoria mettendo tutta me stessa.
Il vero problema con la felicità è quando iniziamo a credere che sia quello stato che possiamo ottenere unicamente quando raggiungiamo gli obbiettivi e appaghiamo – o gli altri appagano – i nostri desideri (o capricci). Finiamo così imprigionati in una spirale di insoddisfazione in cui la nostra natura felice si allontana sempre più da noi…
Ma c’è un’alternativa.
Felicità come scelta personale
Quando vivi la felicità come scelta personale e responsabile, ecco che ti impegni con te stessa/o a riconoscere una direzione buona per te e ad avere delle pratiche che ti permettano di far riaffiorare quella tua natura, incrementandola e rafforzandola ogni giorno, a prescindere dalle circostanze.
Nessuno di noi una volta che si è fatto la doccia dice “ora sono pulito” e smette di lavarsi. Non c’è chi, dopo aver rassettato la casa pensa “Bene, ora è a posto e non devo più occuparmene”. Neanche uno penserebbe che dopo aver innaffiato abbondantemente una pianta, non serva farlo mai più.
Eppure per quanto riguarda il nostro benessere e la nostra felicità, poche persone comprendono che è una piccola ma costante manutenzione da fare, e sono disposti a farla.
Ecco perché io vedo la Felicità come scelta dapprima, e poi come stile di vita.
Uno stile di vita che preveda uno spazio per l’ascolto di sè, per l’auto -conoscenza, per il vuoto – in cui non fare ma solo essere presenti. Che preveda l’abitudine di respirare, muovere il proprio corpo, contattare le proprie passioni e nutrire le relazioni.
C’è un proverbio che dice:
Per essere felice hai bisogno di qualcuno da amare, qualcosa da fare e un luogo dove andare.
Questo, se ci pensi, è sempre possibile.
Perché se anche ci fossero dei momenti in cui ti sembra di non avere nessuno da amare, quella persona puoi scegliere di essere tu.
Qualcosa da fare non è essere affaccendati in mille attività che hanno lo scopo di tenerti impegnata e farti sentire di avere una certa importanza, ma significa piuttosto sentire di stare dedicando il tuo tempo – o almeno una parte di esso – a qualcosa che abbia un senso, a crescere, imparare qualcosa, creare e condividere.
Un luogo dove andare significa una direzione, avere dei desideri verso i quali tendere, perché attraverso la dedizione a quei desideri e progetti (ammesso che siano veramente “tuoi”) si libera e si esprime il tuo potenziale. Nei momenti in cui non sai dove andare, puoi andare dentro di te, dove quello stato che cerchi, c’è già.
Concludendo, sulla felicità
Come diceva Aristotele, una vita felice la si può giudicare solo nel suo insieme, ed è una vita che è stata protesa verso l’espressione del proprio pieno potenziale.
Se sei in un momento in cui ti piacerebbe fare il punto della situazione, se vuoi utilizzare questi mesi per ripartire con chiarezza e slancio a settembre, contattami per valutare insieme il percorso breve di Coaching più adatto a te.
Ciao Giba 🙂
Sono pienamente d accordo su tutto quello che hai scritto.credo fermamente che se in primisi nn ci si ama non riusciremo nemmeno ad amare…ma vivremo la ns felicità `dipendendo” dalla cosa che ci fa stare bene…grazie per la tua condivisione è sempre bello leggerti 🙂 a presto Sabrina
Ed è una gioia per me sapere che mi leggi e che apprezzi. Smettiamo di amarci, a un certo punto, a causa di un fraintendimento, perché crediamo all’idea di dover essere come ci viene richiesto, o come pensiamo sia opportuno per meritare l’amore, anche il nostro.
Parte del ritorno a noi stesse è smascherare quelle convinzioni erronee, e iniziare ad amare la bellezza che siamo.
Grazie Sabrina!
Ciao Gina,mi fa piacere risentirti e leggere ciò che pubblichi. Condivido quello che hai scritto, la felicità come ciò che veramente si accorda con i nostri più intimi desideri. Non è semplice fare delle scelte, mette molto in crisi. Sto proprio dentro una sfida/scelta che sto per decidere di fare. Sarebbe un grande salto evolutivo per me. Anche se ciò comporta il lasciar andare affetti, famiglia, amici, per intraprendere quella che è una missione di vita, ossia, per me, cambiare lavoro. Un abbraccio 🤗
E amarci sempre, per come si è
Walter, sono certa che troverai il coraggio e lo slancio per compiere quel passo per te così importante e che senti dentro in modo così chiaro e forte.Non conosco la situazione, ma forse non è necessario anche lasciar andare famiglia, affetti e amici… forse basta solo cambiare forma alle relazioni. Forse così la percezione del peso di questo cambiamento può farsi più lieve. Fammi sapere!
Un abbraccio
Giao Gina,
grazie, sei partita da un solo concetto, sebbene non facile, e il discorso si è aperto come un concerto di ventagli, fornendo molti spunti di riflessione.
Ritengo che Buddha abbia centrato un punto importante: Il male ha una casua. Rimuovi la causa e avrai la felicità. Ne consegue che per essere felici non abbiamo bisogno di nulla, abbiamo già tutto quello di cui abbiamo bisogno per esserlo. Poi semmai abbiamo bisogni per qualcos’altro, a fianco delle felicità.
La felicità dei bambini ha la caretteristica che non hanno problemi a esprimerla, come non hanno problemi a esprimere gli altri sentimenti, ed ha la caratteristica di essere incentrata sul presente, il qui e l’ora. La crescita ci porta a confrontarci con gli altri, come dici tu, e anche con i ricordi e rimpianti del passato e i desideri e le paure del futuro. Per essere felici è necessario imparare a confrontarsi con passato, presente e futuro, affinando le nostre capacità di percezione ed espressione, in modo da percepire e riconoscere cosa ci fà male, scegliere la lotta o l’accettazione (una nobile forma di fuga). Una scuola di vita. E qui chiudo il ventaglio.
Grazie Gina, sei partita da un unico concetto, anche se complesso: la felicità, e il discorso si è via via allargato come un concerto di ventagli. Personalmente mi piace l’affermazione di Buddha che il male ha una causa, togli la causa e avrai la felicità. Sottintende che per essere felici non abbiamo bisogno di niente, è nella nostra natura. Poiché fuori tutto ci fa da specchio, per rimuovere il male è necessario integrare la nostra ombra, non è facile, ma un’appagante via di crescita. I bambini vivono il presente, il qui e ora, questo gli dà la spontaneità di percepire ed esprimere le loro emozioni. Crescendo accumuliamo sensi di colpa e rimpianti del passato e, per confronto, ci attacchiamo alle speranze ed ai sogni del futuro, immergendoci in una “selva oscura” di emozioni e sentimenti complessi, una matassa che possiamo districare solo se affiniamo la nostra sensibilità di percepirli e quella di esprimerli, senza lasciare che si atrofizzino. Una visione chiara facilita alla nostra mente ed al nostro istinto la scelta tra lotta e fuga, mi batto o me la batto, tra cercare di ottenere ciò che desideriamo o rinunciarvi e accettare che stiamo bene senza (la più nobile ed eroica forma di fuga). E qui chiudo il ventaglio.